L’11 aprile del 1975
a Sant’Anastasia lo scoppio d’una fabbrica di pistole-giocattolo provocò una strage immane. Salvatore Alfuso, piombato sul posto, si ispirò per un inno sulle morti bianche. Ecco il ricordo commosso dei familiari.
All’indomani dei funerali di Stato per la tragedia abruzzese, risulta ancor più difficile rivivere il trentaquattresimo anno dall’episodio della Flobert di Sant’Anastasia. Correva l’11 aprile del 1975 quando una fabbrica del vesuviano, sita nei territori facenti parte dell’amplia area della Masseria Romani, esplose provocando uno sterminio che per l’epoca fece scalpore. Interi nuclei familiari in ginocchio versarono fiumi di lacrime per la scomparsa dei propri cari, impegnati nell’ultima grande fatica prima di spirare in un’implosione inaudita. Un giovane, Salvatore Alfuso, dipendente Alenia e allora nume tutelare del collettivo operaio, calamitato dalle grida di sgomento di alcune mamme che si ritrovarono sotto lo sguardo tramortito l’esangue immagine delle carni dei propri figli sparse qua e là sul selciato delle quattro mura rimaste in piedi dopo l’inaudita esplosione, con la furia che impietriva nelle vene e il magone in gola per i compagni scomparsi, decise di presentarsi tra i recinti della fabbrica per osservare con i proprio occhi lo spettacolo deplorevole: ne sarebbe rimasto colpito per sempre ispirando la Musa celata nella sua indole prettamente schierata verso le sofferenze.
Tra il ribollio delle più disparate sollecitazioni dei conoscenti, i quali sconsigliavano di intraprender l’impresa e le solite magagne degli "uccelli di malaugurio" di turno, intestarditisi ad etichettare il suo lavoro come "catasto di versi di discreto afflato", Sciascià trascorse un’intera notte in quella che era la sua dimora, la casa di sua sorella Maria in Via Miccoli e, dinanzi al lavabo laddove faceva a calci con un male incurabile, mise in fila con una cerchia di amici fidati per quello che sarebbe diventato un inno operaio ancor oggi vivo tra i lavoartori. «Ricordo ancora quella sera di 34 anni fa – spiega ai nostri taccuini la sorella Maria, quartogenita di sette fratelli - quando, tornato a casa, si mise in un angolino seduto, affranto su un divano. E pensava, e canticchiava. E continuava a ripetermi quanto aveva visto, l’urlo delle madri: io non ce la facevo a sentire, ma poiché era lui che insisteva, ascoltavo in silenzio. Sarebbe diventato il suo cavallo di battaglia». «Salvatò, papà te’cerca e nun te’trova» - ci ricorda la sorella maggiore Amalia, la quale insiste sull’incapacità di reperirlo nelle ore post-lavorative quando, svolto il suo compitino, era solito unirsi ai movimenti operai allora in azione nella città vesuviana per fomentare la lotta ai padroni. «Con Sciascià Pomigliano ha perso veramente tanto. Ogni anno mi emoziono quando viene organizzato al Teatro oppure in Villa qualche celebrazione in suo onore. Salvatore era l’amico di tutti, pronto a farsi i debiti per chi era in difficoltà e guai a parlargli male della squadra del cuore, il Pomigliano: si sarebbe fatto fare in quattro, ma nessuno doveva parlare male della sua terra». "Nu Masaniell e Pumiglian" lo definisce la sorella che lo assistette nelle ore decisive del trapasso quando, soffocato da un cancro, ebbe la forza di stringerle la mano per gridare di petto un «madonna dell’Arco pensaci tu»,Ieri, accompagnante dai loro famigliari, le sorelle Alfuso hanno voluto che i nipoti ritornassero sul punto in cui era ubicata originariamente la Flobert: seppur nuovi insediamenti abitativi hanno, oggidì, reso la zona abitata da un folto numero di famiglie che hanno eretto nuovi caseggiati, tra quel che rimane di quelle brughiere selvagge dove l’erba ondeggia sotto le carezze d’un vento commosso, si annusa ancora un ingorgo vegetale che cela mestizia e dolore atavico, mai sopito plenariamente. Su quella sterpaglia intervallata da pilastri in ferro, regna un’amara malinconia degna del crepuscolo e il rischio che cali un velo d’oblio su quell’antica storia di lacrime non è tutto da sottovalutare. «Abbiamo ancora la pelle d’oca quando ripensiamo alla scena dei suoi funerali presso la Chiesa di San Felice– ribadiscono con un rivoletto di lacrima che riga il viso le sorelle in coro – visto che nella nostra Pomigliano non c’era persona che non avesse avuto a che fare almeno una volta con lui. Anche se lo perdemmo in tenera età, Sciascià e il suo mito sono ancora qui in mezzo a noi e nonostante i giovani d’oggi non conoscano le sue gesta, Sciascià fu un uomo che aveva nel suo mirino il pallino di esaltare sempre il suo popolo».
Autore: Salvatore Alligrande
(da Il Mediano.it)
All’indomani dei funerali di Stato per la tragedia abruzzese, risulta ancor più difficile rivivere il trentaquattresimo anno dall’episodio della Flobert di Sant’Anastasia. Correva l’11 aprile del 1975 quando una fabbrica del vesuviano, sita nei territori facenti parte dell’amplia area della Masseria Romani, esplose provocando uno sterminio che per l’epoca fece scalpore. Interi nuclei familiari in ginocchio versarono fiumi di lacrime per la scomparsa dei propri cari, impegnati nell’ultima grande fatica prima di spirare in un’implosione inaudita. Un giovane, Salvatore Alfuso, dipendente Alenia e allora nume tutelare del collettivo operaio, calamitato dalle grida di sgomento di alcune mamme che si ritrovarono sotto lo sguardo tramortito l’esangue immagine delle carni dei propri figli sparse qua e là sul selciato delle quattro mura rimaste in piedi dopo l’inaudita esplosione, con la furia che impietriva nelle vene e il magone in gola per i compagni scomparsi, decise di presentarsi tra i recinti della fabbrica per osservare con i proprio occhi lo spettacolo deplorevole: ne sarebbe rimasto colpito per sempre ispirando la Musa celata nella sua indole prettamente schierata verso le sofferenze.
Tra il ribollio delle più disparate sollecitazioni dei conoscenti, i quali sconsigliavano di intraprender l’impresa e le solite magagne degli "uccelli di malaugurio" di turno, intestarditisi ad etichettare il suo lavoro come "catasto di versi di discreto afflato", Sciascià trascorse un’intera notte in quella che era la sua dimora, la casa di sua sorella Maria in Via Miccoli e, dinanzi al lavabo laddove faceva a calci con un male incurabile, mise in fila con una cerchia di amici fidati per quello che sarebbe diventato un inno operaio ancor oggi vivo tra i lavoartori. «Ricordo ancora quella sera di 34 anni fa – spiega ai nostri taccuini la sorella Maria, quartogenita di sette fratelli - quando, tornato a casa, si mise in un angolino seduto, affranto su un divano. E pensava, e canticchiava. E continuava a ripetermi quanto aveva visto, l’urlo delle madri: io non ce la facevo a sentire, ma poiché era lui che insisteva, ascoltavo in silenzio. Sarebbe diventato il suo cavallo di battaglia». «Salvatò, papà te’cerca e nun te’trova» - ci ricorda la sorella maggiore Amalia, la quale insiste sull’incapacità di reperirlo nelle ore post-lavorative quando, svolto il suo compitino, era solito unirsi ai movimenti operai allora in azione nella città vesuviana per fomentare la lotta ai padroni. «Con Sciascià Pomigliano ha perso veramente tanto. Ogni anno mi emoziono quando viene organizzato al Teatro oppure in Villa qualche celebrazione in suo onore. Salvatore era l’amico di tutti, pronto a farsi i debiti per chi era in difficoltà e guai a parlargli male della squadra del cuore, il Pomigliano: si sarebbe fatto fare in quattro, ma nessuno doveva parlare male della sua terra». "Nu Masaniell e Pumiglian" lo definisce la sorella che lo assistette nelle ore decisive del trapasso quando, soffocato da un cancro, ebbe la forza di stringerle la mano per gridare di petto un «madonna dell’Arco pensaci tu»,Ieri, accompagnante dai loro famigliari, le sorelle Alfuso hanno voluto che i nipoti ritornassero sul punto in cui era ubicata originariamente la Flobert: seppur nuovi insediamenti abitativi hanno, oggidì, reso la zona abitata da un folto numero di famiglie che hanno eretto nuovi caseggiati, tra quel che rimane di quelle brughiere selvagge dove l’erba ondeggia sotto le carezze d’un vento commosso, si annusa ancora un ingorgo vegetale che cela mestizia e dolore atavico, mai sopito plenariamente. Su quella sterpaglia intervallata da pilastri in ferro, regna un’amara malinconia degna del crepuscolo e il rischio che cali un velo d’oblio su quell’antica storia di lacrime non è tutto da sottovalutare. «Abbiamo ancora la pelle d’oca quando ripensiamo alla scena dei suoi funerali presso la Chiesa di San Felice– ribadiscono con un rivoletto di lacrima che riga il viso le sorelle in coro – visto che nella nostra Pomigliano non c’era persona che non avesse avuto a che fare almeno una volta con lui. Anche se lo perdemmo in tenera età, Sciascià e il suo mito sono ancora qui in mezzo a noi e nonostante i giovani d’oggi non conoscano le sue gesta, Sciascià fu un uomo che aveva nel suo mirino il pallino di esaltare sempre il suo popolo».
Autore: Salvatore Alligrande
(da Il Mediano.it)